Burzum – “Fallen” (2011)

Artist: Burzum
Title: Fallen
Label: Byelobog Productions
Year: 2011
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Fra Verdenstreet (Introduksjon)”
2. “Jeg Faller”
3. “Valen”
4. “Vanvidd”
5. “Enhver Til Sitt”
6. “Budstikken”
7. “Til Hel Og Tilbake Igjen (Konklusjon)”

La caduta dalle fronde dell’Albero Cosmico lassù, fuori dal tempo, verso le radici di un mondo corrotto, dalla situazione di un idillio iniziale verso spire di un caos sociale e culturale da cui il poeta scaldico in qualche modo vuole e riesce a salvare il fedele ascoltatore donando la sua arte distaccata dai ritmi e dai valori ad essa alieni del mondo – eppure per quest’ultimo, ugualmente, così essenziale ed irrinunciabile per un tentativo finale di pace dell’anima che tarda ad arrivare. È la caduta ingenerosa, è l’elegia sofferta di una reminiscenza che ha del pastorale ormai inafferrabile, di braccia drammaticamente tese prima della risalita da inferi interiori che vengono scandagliati con il pretesto metaforico e cripticamente autobiografico in “Fallen” da un Kristian fattosi prima Varg e poi uomo in un compito che ha del sisifeo: un adulto forse cocciuto e come al solito testardamente, a volte sarcasticamente contraddittorio, nel 2011 ormai verso la quarantina, ma che non ha più freddo, riscaldato com’è dalla luce della luna; soltanto ancora e probabilmente per sempre un po’ spaesato ed intimorito, di fronte alla sublime grandezza di un creato che lo ispira in modi a lui stesso imperscrutabili.

Il logo della band

Dal verde incontaminato, dallo splendido e dal tepore, ma anche dall’oscurità nera e dalla disperazione della perdita; dalla vita alla vita, dalla morte alla morte, nella piena consapevolezza che -in fondo- ogni uomo riceve alfine quel che merita: sia anche la caduta.
Ma chi è il caduto, il valen a cui il disco parla fin dal suo universale titolo? Varg Vikernes, l’ambigua vittima e coerente carnefice di un destino triplice, o lo è il combattente valorosamente sconfitto, il solitario nella scelta e nello spirito, oppure ancora colui che da dieci anni si perde nelle atmosfere rarefatte e tuttora atipiche di “Fallen”? La figura di un retaggio europeo più generoso e comune che non avido ed esclusivo (nella stessa, sottile, ammissione che viene sottintesa nella scelta proprio di un vocabolo germanico che fertilmente includa, con precisa aderenza nonché medesimo significato semantico, sia il passepartout inglese che il norvegese natio in una convergenza comune che è, per un autore attento quale quello in esame, sicuramente tutto tranne che circostanziale) o piuttosto la fine di un’era e la caduta nel baratro dell’imminente cambiamento che ne consegue, facilmente intuibile come sconvolgente o catabasi per un progetto artistico che, chiuso in sé e protetto dalle intemperie del mondo e del mondano a quel punto tale da oltre vent’anni, sembrava essere all’ascolto “Belus” rimasto cristallizzato nel tempo?
Eppure proprio “Belus” segna, un anno prima di “Fallen”, un cambiamento ben più grande della mera reintroduzione di chitarre, batteria e voce distorti ed elettrificati dopo le esplorazioni totalmente -e per così dire- Ambient che esprimono durante la carcerazione più una necessità che una virtù: la staticità e la perdita di dinamiche al suo interno proprio nell’ardente ed ironicamente affrettato ritorno al mondo Metal (nonostante la bontà di composizioni che non vedevano l’ora di uscire da un sacco chiuso per quasi due decenni), tradito in scelte di mastering con volumi fin troppo alti e compatti, fin troppo tradizionali per metodologia di genere, tanto da rendere ipnotiche -anche in ciò, in linea con ciò che si era interrotto per pubblicazione ad inizio del 1996, e per lavoro attivo quasi tre anni prima- una scrittura che in realtà già nel 2010 mostra svariati altri cambiamenti stilistici nel modo di intendere e realizzare l’ipnotismo calcificato nelle sei lettere che compongono il nome Burzum.

Varg Vikernes

“Fallen” viene quindi masterizzato guardando alle tecniche sonore impiegate nella realizzazione della musica classica, guadagnandone rispetto al diretto predecessore in ampiezza espressiva, colori e voluminosità melodica, sfruttando le iterazioni tipiche di un linguaggio ma filtrate per raggiungerne un altro. Quello che resta un ottimo punto di partenza per creare un suono atipico ed al contempo tanto classico (nell’attenzione alle frequenze alte inevitabilmente propria del Black Metal norvegese a cui, volente o meno, sebbene con le sue regole, Vikernes fa ritorno nel 2010), nonché un autentico, letterale modello lemmatico di Post-Black Metal, diventa anche il modo per tornare insieme all’asso nella manica Pytten alle tecniche già impiegate per le registrazioni di ogni album precedente “Belus” (correggendone il fatale errore tecnico tramite un terzo elemento che prestasse l’auspicata sterilità di orecchie ancora vergini al suono del progetto), accompagnate da una serie di elementi sperimentali (niente affatto presenti solo nell’introduzione o nella pur sorprendente e -col senno di poi- premonitrice conclusione) che vanno a far quadrare le novità già accennate nel predecessore diretto e ad irrobustirle in sei effettivi brani più lunghi e compositivamente curati, fatti di sottotoni pagani ed eclettici sotto la patina cieca di grezza preponderanza dell’austero e del minimale.
Così l’altero Vikernes inizia a sussurrare, moderno Hamsun, tramite quell’oro rosso che è kenning antica e riflette al contempo un feeling di dialogo diretto, attuale, urgente e biunivoco con l’ascoltatore, dimostrandosi ben più della correzione di un errore, inserendo nella musica per la prima volta un distintivo senso di mancanza di certezze -ancora lontane dall’essere trovate, e forse anche solo cercate lungo l’impervio viaggio che il disco rappresenta racchiuso com’è tra introduzione e conclusione- e di inquietudine, d’insicurezza, di dubbio quando non persino di un inedito conflitto interiore (il chitarrismo seghettato e le lente melodie luttuose di “Valen” dopo l’accorato bridge di metà brano); per la prima volta in Burzum viene inserito l’umano e accade nel registro vocale quanto mai ampio del musicista (harsh vocals strozzate, indimenticabili puliti eterei e mormorati a fior di labbra socchiuse, canticchiati, distanti narrati, tutti dischiusi anche solo -ma non solo- nel tormentante classico moderno “Jeg Faller”), così come nell’uso degli strumenti totalmente piegati al servizio della canzone, del vero e proprio canzonato qui come stile principe piuttosto delle derive atmosferiche esercitate anche in “Belus” (seppur ineditamente scevre del potere soprannaturale e misterioso dei sintetizzatori) quanto prima dell’incarcerazione, comunque nuovamente impiegate in “Vanvidd” (dai rintocchi elettronici di cassa digitale e tastiere traslucide, quasi psichedeliche sul rallentamento) quanto nel basso ipnotico della successiva traccia. In questo modo viene presa dall’esegeta una lezione novantiana da sé medesimo impartita e resa totalmente senza tempo, liberandola dalla gabbia dell’angusto spazio geografico nazionale (i continui richiami alla musica Folk sia nel chitarrismo che, soprattutto, nelle suggestioni trance-inducing -non esclusa quella della conclusione “Til Hel Og Tilbake Igjen” che guarda alle sensazioni meno roboanti popolarizzate dai coevi Wardruna in “Runaljod”– risalgono a ritmi e sapori ritualistici di culture pre-cristiane ben più generalmente europee che non recentemente norvegesi) e dello scorrere della clessidra in cui la musica viene de-composta (non solo richiami stilistici di ricambio di un favore mai concesso ai Taake di inizio millennio nel dinamismo delle partiture e nei suoni, bensì, innanzitutto, il sapore distintivo di riff dalla firma inconfondibile come quello che apre l’ultimo effettivo brano), facendola suonare al contempo non datata né databile – non passata, non moderna; ma Byelobog, bagnato dunque del suo stesso sangue, viene anche armato di lancia solare nell’assalto della follia verso lande di morte come passaggio obbligato in “Vanvidd”, piegato e non spezzato dopo la caduta, vicinissimo poi alla resa dei conti con il sé nella lenta “Enhver Til Sitt” e finalmente completo, forte come un’intera armata nell’eloquente, tanto semplice nelle scelte del drum-kit quanto musicalmente splendida “Budstikken” – gioiello dai tratti sghembi che chiude incalzante prima della riflessione tribale dall’oscuro sapore mediatico e sciamanico un disco coerentemente pieno di punti interrogativi costantemente sparpagliati a chiusura dei suoi pregevoli versi, fatto di domande aperte e di pochissime risposte (ammesso che affatto ve ne siano), e forse proprio per questo uno dei parti più maniacalmente focalizzati, ricercati e completi mai marchiati Burzum.

Tramite un linguaggio musicale di nerezza ed oscurità, di tristezza per una perdita d’incommensurabile valore e del moto spedito per la sua attiva riconquista, un monicker che -emblematicamente senza logo- si fa discorso riesce qui, metaforicamente rinato nel 2011 proprio come il Sole nella cosmogonia nordica e riflesso nell’ampio splendore della figura di Baldur, come il dio pallido Belenos che regala la versione latina del suo teonimo al precedente album, ad operare il miracolo ciclico della creazione nell’anabasi verso l’alto; a soffiare con eleganza e pacatezza la vita in un ricettore attento e predisposto all’introspezione senza mai inculcare messaggi espliciti, propagandistici od unidirezionali tramite musica che è poesia e regalo personale, perfino disinteressato e sincero, puro ed incontaminato ad un mondo che non sempre dimostra di meritarlo.
Si tratta dunque di salvare tramite suggestioni e suggerimenti autenticamente còlti l’ascoltatore dalla caduta disperata – o farlo precipitare affinché, malridotto perché realmente liberatosi nella rotta verso l’Inferno e poi di ritorno, regalatagli la libertà di pensare qualunque cosa voglia pensare, possa rialzarsi a suo modo e finalmente con le sue personali regole? Qualunque sia la risposta al quesito per sensibilità e predilezione di messaggio personale, saggiamente e completamente lasciato all’appannaggio del ricevente (perché, del resto, enhver til sitt), quel che “Fallen” trasmette in maniera univoca ed inconfondibile in primo luogo, e specialmente in luce del passaggio evolutivo conclusivo per destrutturazione che sarà nel camaleontico ed altamente sorprendente “Umskiptar”, è che la vita è migliore che mai solo quando vissuta a modo realmente proprio; qualcosa di drammaticamente diverso dal viverla in quanto negazione di ciò che invece non si apprezza o si disprezza. Ironicamente, un assioma che proprio il suo autore non tarderà a tradire in parole e -ben più tragicamente- in fatti smettendo di rispettarlo dopo il 2012.
Ma quell’oro rosso che scorre nel pozzo della stima, nel giardino degli spiriti che animano “Fallen”, ha sconfitto il tempo risultandone alieno ed è a distanza di dieci anni ancora qui: integro, indomabile, ogniqualvolta sarà tempo di metaforica spada, di lancia, di freccia, di ascia da affilare o di un significato da cercare.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Woods Of Desolation - "Torn Beyond Reason" (2011) Successivo Ygg - "Ygg" (2011)